Haiku

 

 

          INTRODUZIONE

 

Lo haiku (俳句) è una forma poetica costituita da tre versi di 17 sillabe o onji (音字), secondo lo schema metrico 5-7-5, che fiorì in Giappone nel XVII secolo. Per onji si intendono i segni grafici dell’alfabeto giapponese, che corrispondono ad uno specifico suono (solitamente equivalente, nella traslitterazione in italiano, ad una coppia consonante-vocale). Questo tipo di componimento nasce dalla tradizione cortese dell’uta-awase o “gara poetica,” indetta per la prima volta dall’imperatore Montoku nel IX secolo d.C.

 

In realtà, il diretto antenato dello haiku è il tanka (短歌) o waka (和歌), letteralmente “poesia breve,” costituito da 5-7-5-7-7 sillabe, che col tempo assunse la forma di un abile dialogo in versi, nel quale un poeta componeva la prima strofa, o kami-no-ku (上の句), e un altro rispondeva componendone una seconda, shimo-no-ku (下の句), la quale doveva richiamare un elemento di quella iniziale, e così via, ottenendo un’ingegnosa concatenazione di strofe, che prese il nome di kusari-renga (鎖 煉瓦), “poesia a catena”, appunto.

 

Già in questo contesto si distinse, per la sua importanza, il primo emistichio del renga, l’hokku (発句), la cui composizione veniva affidata al poeta ritenuto piùesperto. L’hokku, infatti, era il responsabile del tono e dell’andamento generale che acquisiva l’intera poesia e, proprio dal suo affrancamento rispetto al resto della catena, nascerà lo haiku come genere indipendente.

 

Oltre che per la sua inconfondibile struttura metrica, lo haiku si riconosce anche per il suo stretto legame con la natura, shizen (自然), la quale diventa riflesso dello stato d’animo del poeta o motivo di scoperta di esso; si tratta di una natura reale e pura, che ha affiancato poeti come Matsuo Bashō nei loro lunghi pellegrinaggi spirituali attraverso tutto il Giappone e che si manifesta in maniera unica e fugace nelle quattro stagioni: haru (春), “primavera”, natsu (夏), “estate”, aki (秋), “autunno” e fuyu (冬), “inverno”.

 

Un’altra prerogativa di questa forma di poesia è, infatti, il cosiddetto kigo (季語), “riferimento stagionale”, quella parola o immagine che rimanda, in maniera più o meno esplicita, ad un determinato periodo dell’anno e che, perciò, non deve necessariamente essere il nome stesso della stagione, ma, più semplicemente, un elementoche ne consenta l’individuazione, suscitando sensazioni ed emozioni legate al momento descritto.

 

Una traduzione fedele degli haiku nipponici non è sempre facile, principalmente perché la lingua giapponese, considerata tra quelle più complesse al mondo, oltre ad essere priva di generi, numeri e declinazioni, è dotata di tutta una serie disfumature, espressioni e accorgimenti, che non hanno corrispondenti in altre lingue.

 

Per esempio, negli haiku sono presenti i kireji (切れ字), ovvero quelle sillabe o particelle che hanno la sola funzione di creare una pausa, una sospensione, paragonabili ai μέν e δέ greci, che, di fatto, non sono traducibili in italiano. Elena Dal Pra, curatrice del libro “Haiku: il fiore della poesia giapponese da Bashō all’Ottocento”, li ha definiti come “cesura del senso, una sospensione suggestiva che crea un vuoto nella percezione estetica di chi legge” ; si tratta di parole che non hanno un significato vero e proprio, ma che sono strettamente necessarie per il quadro complessivo dello haiku e che, talvolta, veicolano anche un’emozione, come il nostalgico e melanconico kana, che conclude gran parte delle poesie.

 

散りてのち

おもかげに立つ

牡丹かな

 

Cfr. E. Dal Pra, Haiku: il fiore della poesia giapponese da Bashō all’Ottocento, Milano 1998, p. XI 1

2

 

chirite nochi

omokage ni tatsu

botan kana

caduto il fiore

resiste l’immagine

della peonia

(Yosa Buson)

 

L’obiettivo che ho voluto perseguire con questa tesina è stato quello di trovare delle analogie e delle connessioni più nascoste tra il paese in cui sono nata, il Giappone, e l’Occidente, dove tuttora vivo e che, soltanto col tempo, ho imparato a conoscere. È stato un percorso che mi ha permesso di riscoprire qualcosa delle mie origini, costruendo un ponte tra la cultura giapponese e quella occidentale, appresa in cinque anni di liceo classico, proprio con ciò che amo di più: la poesia.

 

Ho scelto, così, di analizzare, in questo elaborato, le suggestioni dell’arte poetica dello haiku oltre i confini del Sol Levante, a partire dalla grecità, culla del sapere dell’antichità, con Callimaco, il quale, in un altro tempo, si è accostato alla tradizione nipponica, difendendo da solo e con orgoglio la poesia breve, in un’epoca in cui nessuno la riteneva all’altezza dei copiosi poemi omerici. Sono passata poi a trattare Giuseppe Ungaretti, il poeta italiano, contemporaneo al fenomeno del ‘Giapponismo’ , che più si avvicinò a questo modo di concepire la poesia, forse incon sapevolmente e involontariamente, soprattutto nella prima fase della sua produzione poetica, e infine Jack Kerouac, lo scrittore americano del romanzo “On the Road,” nonché portavoce della Beat Generation, che reinterpretò in chiave assolutamente personale la tradizione di questo piccolo, profondo e affascinante coagulo di versi.

Inoltre, da quella che è una tesina principalmente umanistica, ho voluto effettuare una diramazione del discorso anche in ambito scientifico e ho tentato di “umanizzare”, in Per “Giapponismo” si intende l’influenza che ebbe l’arte figurativa giapponese in Europa a partire dalla fine dell’Ottocento, in particolare sugli artisti francesi, arrivando ad abbracciare anche personaggi come Van Gogh. particolare, la chimica organica, fatta di colori, odori e scoppi, proprio come Kerouac aveva definito queste particolari forme poetiche (“pops”), che si è rivelata, per certi aspetti, molto affine alla molecola che è, in fondo, lo haiku.

 

   GRECO

 

Callimaco e la fortuna della poesia breve Callimaco nacque a Cirene intorno al 300 a.C. e presto si trasferì ad Alessandria, dove ebbe modo di frequentare la celebre Biblioteca, il vero fulcro della cultura del tempo, e seguire le lezioni che vi si tenevano, senza mai, tuttavia, ricoprire l’incarico di bibliotecario. Fu insegnante, poeta e critico letterario, operando prima sotto ilregno di Tolomeo Filadelfo e, in seguito, sotto Tolomeo Evergete, con cui ebbe stretti legami. Callimaco è stato un poeta che ha rappresentato perfettamente il contesto socioculturale in cui si è trovato a vivere e che ha incarnato al meglio la figura del nuovo intellettuale ellenistico, cortigiano ed erudito, di un’epoca in cui la cultura non era più a disposizione di tutti o un’esperienza pubblica e collettiva, come il teatro in età classica, bensì un privilegio riservato ai pochi che se la potevano permettere. Non a caso, infatti, quella alessandrina è stata denominata “età del libro,” il quale divenne il nuovo strumento di cultura, intesa come elitaria.

Il corpus callimacheo, che ci è pervenuto in maniera lacunosa, comprende, secondo l’ordine voluto dallo stesso poeta, il quale si occupò personalmente dellacura editoriale dei suoi scritti: gli Aitia (Aἴτια), raccolta di elegie con finalità eziologica, seguiti da tredici Giambi (Ιαμβοι), sei Inni (Ύμνοι) e, infine, il breve poemetto o epillio Ecale (‘Εκάλη). Già da questa semplice elencazione, emerge quella che è una delle caratteristiche più innovative della produzione letteraria di Callimaco, il quale, a differenza di chi lo ha preceduto e che si è sempre consacrato ad un solo genere, attenendosi alla teoria aristotelica della letteratura come “vocazionale,” ha preferito conferire al suo lavoro varietà e mescolanza di generi, ovvero πολυείδεια (“pluralità disfaccettature”).

Callimaco fu sempre consapevole ed orgoglioso delle novità che egli aveva apportato al panorama culturale dell’epoca alessandrina, e, spesso, non esitò a farnesfoggio, come dimostrano più passi delle sue opere, in cui il poeta ha dato spazio avere e proprie dichiarazioni di poetica, senza mai, però, denigrare il resto di coloroche svolgevano il suo stesso mestiere. Con Callimaco si perde quell’arrogante e maldicente senso di competizione con gli altri poeti, in virtù del quale ciascuno aspira a fare meglio degli altri, e affiora, invece, la volontà, antitetica al convenzionale principio di imitazione, di fare poesia diversamente dagli altri. Da qui, infatti, è possibile definire uno dei tratti salienti dell’opera callimachea, che è l’originalità, lo sforzo di distinguersi dagli altri e di essere apprezzati e ricordati proprio per questo, anche a costo di fronteggiare le opinioni ostili di chi continua a sostenere la tradizione.

In Callimaco, sarà proprio tale desiderio incondizionato di essere originale, non tanto nell’invenzione di generi, quanto nella rivisitazione di essi, a spingerlo a concepire la poesia in maniera inedita. Lo testimonia il famoso prologo degli Aitia, che non solo ha il ruolo di introdurre il lettore all’opera, ma assume la conformazione di un vero e proprio manifesto della sua poetica, così innovativa per i gusti dell’epoca.

 

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